Spulciando tra vecchi ritagli di giornale mi sono imbattuto in questo articolo di Matteo Bologna, che deve risalire all’incirca al 2013 (purtroppo non ricordo la fonte), che fotografava in maniera perfetta la situazione di chi in Italia doveva portare a casa il pane lavorando nel mondo della creatività.
Da allora sono passati quasi cinque anni, ma la situazione è cambiata ben poco. Per questo motivo ho deciso di trascrivere l’intero articolo qui sul mio blog.
Buona lettura.
Una delle domande che mi vengono rivolte di frequente da colleghi o studenti americani che vengono a visitare il mio studio (risiedo a New York da vent’anni) è se ho mai pensato di tornare a vivere in Italia.
La mia risposta, ormai recitata a memoria è: certo, a patto che non ci debba lavorare. Non che non ami lavorare anzi: se non avessi una famiglia penso che non smetterei mai. Ma la mia professione implica le relazioni con i clienti. E io non amo i clienti italiani.
Qual è la mia professione? Sono un designer, nello specifico un graphic designer. Se mi presento così in Italia (anche usando la traduzione, designer o progettista grafico), spesso vengo confuso con un architetto o un illustratore.
Al contrario negli Stati Uniti il mio lavoro nella società ha un ruolo chiaro e ben definito: aiuto il mio cliente a fare soldi. Perché? Perché lo aiuto a raccontare la sua storia o quella del suo prodotto con un linguaggio che gli permetta di avvicinarsi al suo pubblico: un linguaggio fatto di caratteri e corpi tipografici, colori, immagini, per definire il logo, la comunicazione, l’immagine di una azienda. Aiuto il cliente ad essere migliore dei suoi concorrenti, o semplicemente diverso, così che il suo messaggio sia distinto e riconoscibile tra la massa di messaggi simili.
E il cliente ne è perfettamente consapevole fin dall’inizio della collaborazione: è implicito che il mio lavoro contribuirà ad aumentare il valore del suo prodotto.
Ora siccome ho lavorato una decina d’anni in Italia prima di emigrare e ho avuto clienti italiani con il mio studio di New York (pausa pubblicitaria: www.mucca.com), sono nella condizione di poter confrontare i due mondi. E il confronto è scioccante. Se guardo i siti dei designer italiani, vedo che la qualità è notevolmente aumentata, anche grazie a internet. L’Italia ha designer fantastici e la media è molto più alta di quando ho lasciato Milano.
Si può tranquillamente dire che il graphic design italiano non ha niente da invidiare, dal punto di vista estetico, a quello del resto del mondo. Ma quel design non è radicato nella società perché purtroppo sono i clienti italiani che, in massima parte, non si sono adeguati al resto del mondo. Tutta la bellezza, l’eleganza, la cura, l’efficacia che esce dagli studi italiani è merito esclusivo dell’amore che i miei colleghi mettono nella loro arte; ma tra i clienti – le aziende – non è ancora maturata la nozione che investire nel design aumenta il fatturato.
Per questo continuo a chiedermi come facciano i miei colleghi italiani a campare. Com’è possibile che non ricevano un anticipo sui progetti, e che vengano pagati dopo 120 giorni? Come fa un giovane ad aprire uno studio se non può versare l’affitto perché le fatture vengono pagate poco e sempre in ritardo? Come fanno a lavorare con clienti che sembra facciano un favore a dargli il lavoro, “perché possiamo trovare sempre qualcuno che lo fa a meno”?
L’Italia dei miei colleghi è un paese dove si può sempre scendere a compromessi sulla qualità, dato che l’importante è che “costi poco”.
Ripensandoci, forse dovrei cambiare la risposta alla domanda iniziale: tornerei in Italia, ma solo se potessi continuare a lavorare per clienti americani.
P.S. Vi consiglio l’intera visione del video, il finale vi lascerà a bocca aperta 😊